Da: principessa579@alice.it
Inviato: lun 29/09/2008 22.15
A: chiararosa.baldin.silsinisani@blogger.it
Oggetto:
Una Gretsch per l'Africa
«Volevo tornare alla chitarra, ma non in una dimensione folk come quella delle prime canzoni che avevo fatto per la televisione nazionale maliana: avevo voglia di qualcosa di più rock, di più blues»: chitarre elettriche, dunque, e batteria al posto del balafon. Non ci si immagini però una Rokia Traoré che insegue il miraggio dell'hit afro-pop: con accenti nuovi, anche in Tchamantché (Ponderosa) la cantante franco-maliana rimane fedele alla dimensione neotradizionale, all'essenzialità, al rigore e all'eleganza a cui la sua musica ci ha abituato.
«La chitarra è e resta il mio primo strumento - ci spiega la Traoré - ma per parecchio non ho avuto il tempo di dedicarmici, perché avevo dovuto impegnarmi sulla voce, sugli arrangiamenti, sugli strumenti tradizionali: avevo questa frustrazione, e volevo anche tornare al blues e al rock, che amo. Ho provato parecchie chitarre: la scelta alla fine è caduta sulla Gretsch, e ha determinato quello volevo, anche nei brani in cui non c'è: un suono elettrico vintage, Gretsch del momento dei grandi successi di questa marca, un suono più analogico che digitale. Poi trovare un ingegnere del suono adatto alla mia idea non è stato facile».
Come mai?
«Gli ingegneri del suono che consultavo mi dicevano che ogni volta che un musicista world ha voluto fare qualcosa di più pop non ha funzionato. E quindi mi passava la voglia di lavorare con loro, perché mi vedevano come un'artista world, esattamente l'immagine cui ho cercato di sottrarmi: non voglio essere imprigionata in un ambito. Poi sono andata a trovare Phill Brown dopo aver ascoltato un solo progetto su cui aveva lavorato, l'album di Beth Gibbons dei Portishead: il suono in realtà non era quello che cercavo, ma mi ero detta che chi l'aveva fatto poteva produrre anche quello che immaginavo io. Dopo ho scoperto che aveva lavorato con Bob Marley, gli Stones, Robert Plant, i Talk Talk. Ha ascoltato la mia maquette e ha capito quello che volevo: poi è della vecchia generazione e lavora solo in analogico. Mi ha suggerito di utilizzare un co-produttore con esperienza di chitarre: Calum Mc Call, musicista folk che mi ha messo a disposizione un incredibile parco di chitarre vintage - le più giovani dovevano avere trent'anni! Ho scelto la Silvertone per certe canzoni, delle Telecaster, delle altre Gretsch. Il risultato è molto vicino a quello che volevo: e anche se l'orchestrazione è più attuale non suona pop, perché il pop è un atteggiamento, un suono che attira immediatamente ma senza sorprese, fatto apposta per degli hit. Chi non vorrebbe fare un hit? Ma non ad ogni costo, e io non amo il suono pop di adesso».
Nessun rammarico a lasciare il balafon?
«C'era una ragione non aggirabile per cui innanzitutto ho imparato a lavorare con gli strumenti tradizionali maliani, per trovare il mio colore, la mia strada: ogni album era come una discussione della tesi, mentre li facevo imparavo. Come risultato di vendite i tre album sono andati bene, sempre meglio dal primo al terzo, e il gruppo funzionava a meraviglia. Ma dopo Bowmboï non avevo voglia di fare un quarto album che gli assomigliasse e senza nuove idee. Mi sono detta: cambio prima che si perda la magia, prima di non avere più niente da dire».
In bambara il titolo significa "equilibrio"...
«Penso che in Africa ci sia mancanza di equilibrio, ma che manchi di equilibrio anche la visione che il mondo intero ha dell'Africa. Cinquant'anni o quasi di indipendenza dell'Africa, in alcuni casi molto meno, come per il Sudafrica: è pochissimo a paragone col periodo dell'occupazione coloniale, che è durata quasi il triplo. Non trovo nulla di sorprendente nella situazione dell'Africa e nei rapporti fra l'Africa e l'Occidente: come si potrebbe dire che non era prevedibile? Non si tratta di un'incapacità dell'Africa o degli Africani: quello che abbiamo subito durante la colonizzazione non si supera in cinquant'anni. La copertina contiene un messaggio, complementare al titolo: quando in un'immagine lo sguardo è verso destra questo comunica il senso di essere rivolti verso l'avvenire: in copertina ho voluto guardare a sinistra, anche se tutti me lo sconsigliavano, perché avrei dato l'idea di guardare il passato. Ho della speranza, malgrado tutto, ma penso che arrivi un momento in cui bisogna ristabilire un equilibrio tra il passato e il futuro».
Alla fine c'è una ghost-track, "The Man I Love", un omaggio a Billie Holiday.
«Malgrado le loro origini il jazz e il blues sono poco conosciuti in Africa: se una piccola nicchia potesse esistere anche qui sarebbe già qualcosa. La generazione di mio padre amava e ascoltava queste cose, che però col tempo si sono perse e oggi sono quasi sparite. Sono stata chiamata a partecipare a un omaggio a Billie Holiday, assieme a Diana Reeves, Fontella Bass, Nancy Wilson, e mi è venuta voglia di riprendere alla mia maniera questo brano di Gershwin. Credo sia importante averne una versione africana, che non esisteva: è anche un modo perché si parli di Billie Holiday in Africa».
Marcello Lorrai
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